Escursionismo e trekking nel parco nazionale del Velebit settentrionale

Il Velebit è una sorta di montagna sacra (presente in tutte le culture) per i Croati. E ha ben ragione di esserlo ! La sua forma selvaggia, a tratti spaventosa, dovuta ai fenomeni carsici che la rendono piena di anfratti e grotte (tra cui Lukina jama o di Luca, una delle più profonde del mondo, scoperta nel 1991 da speleologi slovachi), la presenza di sorgenti, di una grande varietà di fauna e flora, tra cui anche molte specie endemiche, esercitano da sempre un fascino arcano in chi la avvicina. Il massiccio del Velebit è il più imponente e più ricco di bellezze naturali dell’intera Croazia, tanto e vero che l'UNESCO ha proclamato l’intera montagna, lunga circa 150 chilometri, "Riserva mondiale della Biosfera", per ora l’unica in Croazia.. Parco naturale con ben 2.000 Kmq di superficie, rappresenta anche l’area protetta più vasta del Paese. All’interno del parco naturale si trovano una serie d’aree protette di minori dimensioni, tra le quali ricordiamo due parchi nazionali, quello del Sjeverni Velebit (Velebit settentrionale), nel territorio della regione di Lika, e quello di Paklenica (meta ambita per per gli amanti del trekking e dell'alpinismo) in Dalmazia, nelle vicinanze di Zara. Il Velebit mi ha affascinato da sempre. All'inizio, da piccolo, avevo un pizzico di paura mentre guardavo le sue cime dall'isola di Rab. Poi come uomo di mare dalla mia piccola barca annusavo l'aria di bora che arrivava in raffiche. Guardavo le nubi che scendevano veloci lungo i pendii e colpivano le imbarcazioni che navigavano, ammiravo la neve che era cosi vicina eppure lontanissima, l'innospitabile roccia dietro il Canale della Morlaca. Per lunghi decenni mi sembrò innacessibile, mistico, selvaggio, terra proibita, intoccabile. Poi nacque l'amore verso le montagne che colleghò per sempre l'azzurro e il verde. Fatto che mi porto a conseguire il brevetto di guida di montagna molti anni dopo quello nautico. E l'avventura continua.....

fido e eros

In seguito dò le impressioni e le testimonianze degli italiani protagonisti di giri avvenuti nel Velebit (Alpi Bebie) che hanno voluto comunicare le sensazioni vissute durante questi viaggi. In tutti traspare l’amore verso questa terra dalla natura tanto travagliata quanto la sua storia, che merita rispetto e vale la pena di essere protetta dall’aggressione turistica subita dalla costa. Buona lettura !

Eros Grubisic



1. VELEBIT EXPRESS
Pedalata di 420 km. in 5 tappe da Trieste a Starigrad - Paklenica attraverso il Gorski Kotar e la catena dei Velebit.

Lunedì 8, venerdì 12 ottobre 2001
Era logico che prima o poi ad un appassionato di mountain bike e montagna con origini Dalmate venisse in mente di raggiungere una delle sue amate località del Litorale Adriatico attraverso percorsi alternativi che non fosse la trafficatissima litoranea adriatica , e quando nel febbraio del 2001 proposi di raggiungere Zara attraverso il Gorski Kotar e la catena dei Velebit scoprii che tutto era già stato abbozzato dai miei amici e futuri compagni in questo bellissimo viaggio (potere della telepatia!) solo la località finale non andava bene, a causa di quegli ultimi 25 km asfaltati e quindi scegliemmo il Parco della Paklenica quale naturale meta diun viaggio nella natura ancora incontaminata dove è più facile incontrare un orso piuttosto che un uomo. Così nacque e si sviluppò questa Velebit Express che riuscì a donarci tante sensazioni ed emozioni lontane da competizioni o exploit che tanto imperversano ai nostri tempi. Una bellissima “gita” che mai avremmo voluto finisse, in posti da favola dove poter respirare ancora una volta quel genuino gusto d’avventura nel senso più infantile e sincero. 5 giorni pieni, ricchi di bellissimi panorami, gustose merende e piccoli inconvenienti che solo un ciclista sa apprezzare alla fine del suo viaggio ma tanto fastidiosi mentre si pedala sotto la pioggia battente per raggiungere Platak, o il sole feroce di una Lika ancora sconvolta dall’ultimo conflitto. Velebit Express: quasi una sintesi dei nostri stati d’animo così protesi in questi anni verso queste terre così drammaticamente belle, ognuno a coltivare la sua passione per poi trovarsi tutti assieme a pedalare come se la bicicletta fosse riuscita a condensare in un unico mezzo le nostre molteplici necessità di integrarsi in questa natura così bella e generosa.

Riki Segarich

 

2. TRAVERSATA SCIALPINISTICA DEL VELEBIT SETTENTRIONALE E CENTRALE,
Paolo del Core, Mauro Cian, Paolo Pezzolato; marzo 2002.

Il furgone si ferma sul primo tornante dopo Oltari dove tracce di altri pneumatici nella neve bagnata sbattono contro un insormontabile blocco ghiacciato; venti minuti più tardi tre sagome colorate scivolano silenziosamente sulla passerella bianca che taglia a zig zag i boschi del Zavizan. L’inverno del Velebit segna i contorni di un paesaggio lunare senza confini apparenti, un carso tormentato che guarda al mare come a una liberazione: la sua profonda solitudine stimola lontani e atavici ricordi molto simili a sogni. Regolare la traccia degli sci (e il loro rumore ritmico e sommesso), irregolare quella della lepre, nitida del cervo, rara e profonda dell’orso affamato: è un continuo filo d’Arianna che ci indica il sud. La vita sembra dipanarsi in questi spazi grevi e severi senza rumore, senza apparire: la malia di una stagione contraria la esalta.

Dalla Lubenovacka vrata affacciandosi oltre il bosco verso il mare, appaiono nitide le bianche cuspidi calcaree dei Rozanski Kukovi: laggiù il sole di marzo ha già consumato la neve. Qui è un`altra cosa: quella che d’estate è una carraia oggi è solo un esiguo varco nella nuda faggeta; spesso il novellame giace piegato dalla neve a confondere, talvolta a disorientare. Ma dal gelo delle doline sale lentamente la sera. Cala improvvisa la notte; la fortuna di stelle in un cielo complice. I led della frontale illuminano di luce spettrale l’ultimo colle sopra Stirovaca, poi si patina dolcemente in discesa verso Kugina Kuca. Nella zimska soba la zuppa Knorr ha il sapore di qualcosa che lega profondamente certi spiriti al territorio, la responsabilità di farne parte, il rispetto per una natura totale, l’amicizia forse.

Un altro giorno.
Un nuovo sole.
Quel sole dietro ad una curva è già primavera inoltrata.
A Baske Ostarije io, Paolo e Mauro arriviamo in maniche corte con gli sci sullo zaino e le foto di una nuova storia: forse per questo la birra dell’Hotel Velebno ha un gusto cosi`speciale.

Paolo “Poldo” del Core

 

3. Diario di viaggio VELEBIT - la lunga rotta di SERGIO SERRA

Nell’ottobre del 2001, dopo appena cinque anni dalla conclusione delle infinite guerre balcaniche, decidiamo, Roberto Valenti ed io, di dare vita all’antico progetto di attraversare integralmente la catena dei monti Velebit, montagne misteriose ed affascinanti che si affacciano sulle meravigliose coste croate, davanti ad uno dei più begli arcipelaghi del mondo. Inevitabilmente abbiamo dovuto affrontare numerosi miti, leggende moderne e numerosissimi vuoti cartografici e di informazioni per portare a termine il trekking, che alla fine si è rivelato una vera e propria ri-esplorazione. La scelta stessa di partire in totale autonomia, senza alcun rifornimento o collegamento, con cinque litri d’acqua sempre nel sacco, ha caratterizzato fortemente questo viaggio sul piano dell’avventura. Un’esperienza solo apparentemente distante, in realtà vissuta nel cuore della nuova Europa. A qualche anno di distanza, la situazione è in via di normalizzazione, le informazioni e le cartografie sono oggi molto più rassicuranti e complete e si assiste al ritorno dell’escursionismo nell’area . Per quanti tentativi abbia fatto, sul piano della sintesi letteraria, nulla mi restituiva quelle vive emozioni come rileggere il diario del trekking, che cerco di riproporre, in versione sintetica, nella sua parte conclusiva.

 

Domenica 14 ottobre, quinto giorno di cammino attraverso il Velebit...
....Incontrando sterco di lupo sull’ultima breve salita, entriamo finalmente nella Sugarska Duliba. In mezzo a praterie contornate da nude cime calcaree, un conteiner adattato a bivacco: stufa, legna a volontà, brande comode e un secchio di ferro con una corda annodata diverse volte, chiaro segno di una cisterna nelle vicinanze. Avremmo dovuto proseguire per Jelova Ruja, ma siamo in marcia da più di nove ore e ci rimangono solo due ore di luce davanti. Decidiamo saggiamente di fermarci in questo luogo fantastico, degno di un rifugio di alta montagna e l’antico pozzo, custode della preziosissima acqua è in breve ritrovato. Rilassati, tentiamo di andare a fotografare un altro sensazionale tramonto sulle isole dalmate, ma la violenza della “Bora” ci impedisce di mettere in posa. Il focolare funziona a meraviglia e diamo fondo agli ultimi splendidi porcini rimasti, incontrati strada facendo. Caldo in casa, Bora tesa e milioni di stelle fuori, sul Velebit.

 

Lunedì 15 ottobre
Una piacevole sorpresa questa mattina, una volta riaperta la porta del bivacco: un piccolo branco di camosci aspetta di scaldarsi ai raggi del primo sole su una cima rocciosa che dà sul mare, ancora intirizziti dal freddo notturno e ben stagliati sul cielo ancora pallido, sull’esatto confine tra luce e ombra. La giornata è di nuovo splendente e il vento del tutto cessato, le isole stamattina sembrano incorniciate di luce. Con un lungo giro per sentieri e strade forestali, in apprensione per la difficoltà di individuare il percorso, verso l’interno boscoso della catena, giungiamo al Planinarski Dom (rifugio alpino) “Jelova Ruja”. Quello che fu un ridente rifugio in mezzo ai boschi ora è un sinistro rudere invaso dai rovi, con ogni probabilità usato nei capovolgimenti di fronte dai soldati di ogni parte e più volte bombardato. Sostiamo brevemente per impedire ad un sottile velo nebbioso di angoscia di avere il so pravvento, addentrandoci nuovamente nei boschi dietro a segnavia nuovi che ben si guardano dal seguire sentieri o mulattiere preesistenti. Dopo ben due giorni di cammino trascorsi fuori delle carte topografiche disponibili, finalmente, con sollievo scopriamo che il nostro itinerario entra in un angolo della carta del parco nazionale di Paklenica.
Dopo aver attraversato un bosco di faggi dalle infinite e profondissime doline, circondati da cime di roccia che si intravedono appena tra i rami, finalmente ci caliamo nel gigantesco anfiteatro roccioso di Stap. Rimaniamo letteralmente senza fiato! Come in un circo glaciale, tutto attorno ad una piana erbosa si stagliano a perdita d’occhio decine e decine di guglie, pareti, cattedrali di bianca pietra calcarea alte anche 200 metri, sopra le quali si staglia nettamente il profilo bellissimo del Kuk Stapina, una copia in scala, quasi perfetta, del Fiz Roy passato in candeggina. L’atmosfera è calda ed immobile, il silenzio assoluto. Solo il grido della poiana in volo penetra quel luogo,senza profanarlo. Scendiamo in quella specie di tempio camminando in punta di piedi su quanta più roccia possibile e ci fermiamo per la pausa-pranzo al comodo bivacco Tatekova Koliba, dove carta alla mano studiamo bene il percorso. Secondo le mappe, dateci da una ragazza croata che ha partecipato alla “guerra di liberazione”, siamo in bocca ad una delle zone più a rischio dell’intera traversata. Ripreso il sentiero una vipera ammodytes sembra metterci in guardia fischiando tra la salvia e poco dopo ci si para davanti un messaggio forte e chiaro: un segnavia di metallo bianco e rosso con inciso “MINE!”. Semplicemente agghiacciante. Culo stretto e piedi veloci raggiungiamo un balcone di puro calcare dal quale svetta la cima bianchissima e inaccessibile del Kuk Stapina. Proprio davanti a questo luogo magico sorge, in lontananza, il ponte che collega l’isola di Pag alla terraferma, unico collegamento tra la Croazia settentrionale e la Dalmazia dopo il bombardamento del ponte sulla Maslenica: è fin troppo evidente l’importanza strategica di questi luoghi. Nella luce radente dell’ultimo sole, camminando su un mare di salvia, arriviamo alla Carabusa Stan, una piccola fattoria quanto mai isolata dove una coppia di anziani pastori passa i suoi ultimi anni tra capre e api, in un eremitaggio autarchico che si rispecchia in tempi lontani. “Tutte le mine della zona le ho tolte personalmente,” ci rassicura il capo famiglia, ma la sua tranquillità eremitica non placa la nostra giustificata ansia. Il sole sta tramontando, proseguiamo velocemente verso le grandi piane del Malo e Veliko Rujno che si stendono sotto di noi in un mare di erba dorata. Affrontiamo le insospettate pianure in mezzo ai monti con le ultime luci del giorno e puntualmente perdiamo la traccia nell’erba alta. Saggiamente, piantiamo la tenda rigorosamente sul sentiero davanti all’ultimo segnavia, prima del nulla, sotto un cielo ancora perfettamente stellato. Da un albero vicino una femmina di allocco si lamenta, unica voce di un muto universo.

 

Martedì 16 ottobre.
Partiamo con i primi raggi di sole che sollevano l’umidità delle praterie per guadagnare un giorno raggiungendo il rifugio di Ivine Vodice attraverso le alte creste del Vaganski vrh, nei monti di Paklenica. Subito scopriamo che la sera precedente non ci siamo persi a causa della scarsa luce e della stanchezza, ma perché il sentiero si perde tra innumerevoli tracce di pecore nell’erba alta autunnale. Attanagliati dalla paranoia delle mine, evidenziate con un punto interrogativo nella mappa in nostro possesso, va avanti il povero Roberto secondo la cinica conta degli orfani che si produrrebbero con un incidente; tre nel mio caso, “solo” uno nel suo. Vaghiamo per la brughiera con il cuore in gola, distanti tra noi una decina di metri, per ben due ore prima di raggiungere la “salvezza” dei corpi, forse anche delle anime, alla chiesetta di Gospa od Rujna, in mezzo alla più grande delle pianure. Un’ acqua limpida e freschissima ci accoglie con sollievo (“…un po’ d’acqua può far bene anche al cuore…” dice il Piccolo Principe al Pilota) da una cisterna “sacra” a lato della solitaria chiesa, un buon auspicio per iniziare la lunga risalita di oltre 900 metri che ci porterà in vetta al Vaganski Vrh, cima più alta e simbolo del Velebit. La mulattiera attraversa un bosco di pino nero e ad una mezzacosta su terreno riarso segue una salita tra rocce bianchissime fino la sella a 1300m circa che dà accesso alla valle nascosta di Struge. Attraversiamo nuovamente una zona molto pericolosa, teatro di battaglie cruentissime tra il 1992 e il 95; stranamente siamo più impressionati dalla bellezza e dalla vastità solitaria di quelle valli sospese che dall’oggettivo rischio. Ci pensa un cartello della direzione del Parco Nazionale di Paklenica a riportarci alla realtà: “Chi prosegue lo fa a proprio rischio…”. Questo messaggio, scritto in croato ed in inglese, assieme alle inconfondibili depressioni delle bombe e a strani cavi elettrici che partono in tutte le direzioni, ci riportano ad un clima di cupa crudezza, che in qualsiasi momento può spezzare tutta la felicità dei monti che ci inventiamo noi alpinistucoli da passeggio. Proseguiamo ugualmente perché il tracciato è nuovo e molto evidente, mantenendoci scrupolosamente sul sentiero come consigliato nelle “istruzioni d’uso” del Velebitski Planinarski Put. Nuotando in un mare di colori autunnali, lo sguardo si perde in larghe prospettive incrociate su tutte le cime del Velebit che già ci hanno visto passare. Quei cavi sono dappertutto e il passaggio tra vecchie casite di pietra di pastori trasformate in nidi di mitragliatrice e la visione di una semplice maglietta militare impigliata tra i rami ci attaccano addosso il respiro corto della desolazione. Si lamenta dentro di me il contrasto tra la tragedia più cupa e il grande fascino di luoghi meravigliosi, che ragazzi in mimetica avranno avuto appena il tempo di respirare, coi capelli ancora colorati, strappati alle discoteche e alle fidanzate, dietro al mirino di un lanciarazzi a spalla. Per fortuna arriva presto la vetta del Vaganski Vrh 1757m, dopo un lungo percorso tra profondissime doline incastrate tra le vette dei monti, come crateri di vulcani dimenticati. Quella lontanissima cima stagliata nell’aria del pomeriggio dalla vetta del Zavizan, forse oltre cento chilometri fa, ora è quasi incredibilmente sotto i nostri piedi, l'altopiano della Lika avvolto nelle nubi a Est e la luce smagliante delle isole ad Ovest; non ci posso credere. Come fossimo sulla vetta di un ottomila l’emozione ci assale fortissima e l’abbraccio di rito tra Roberto e me dopo tante altre avventure vissute insieme, è quanto mai sentito. Il tempo di respirare a fondo l’aria della vetta, foto e riprese di rito e si riparte verso lo Sveto Brdo (1751m), ultima grande cima verso Sud attualmente raggiungibile del Velebit. Poco sotto la cima del Malovan, ci troviamo di fronte a una piccola lastra di marmo nero, adagiata semplicemente tra le pietre sopra il sentiero; le sue parole ed il nome inciso mi colpiscono come un pugno in pieno viso. In quel luogo, tra l’erba bassa in mezzo ai calcari di montagna morì in battaglia Lukiå Luka, il 14 luglio 1992, geologo e speleologo, presidente del gruppo speleologico di Spalato. A lui fu dedicata la “Lukina Jama” l’abisso di 1370 m di profondità che si trova tra gli Hajducki Kukovi, esplorato dai suoi compagni in piena guerra. Avrebbe potuto succedere anche a me, se solo fossi nato qualche chilometro dopo il confine, dove si passano infiniti pomeriggi di sole e mare, nelle estati istriane. A risvegliarci da quest’ennesima prova di realtà, una visione assolutamente magica, cercata e a lungo attesa. Sulla linea di cresta, attraversiamo in diagonale un pendio di pino mugo rivolto ad Est ed esploriamo inconsapevolmente con lo sguardo un’altra delle profonde doline che tortutto l’erba alta, ormai secca sul fondo delle doline, di un giallo oro intenso, come monete d’oro sparse su un tessuto verde e ramato. Il lungo tempo dei monti è ancora una volta trascorso, ma tentiamo di ignorare che sono già le dieci e trenta e che dobbiamo ripercorrere ancora la via di ritorno verso la lontana riva del mare. Lo sguardo non si stacca dal meridione, dove in un delicato controluce si incrociano le alture carsiche verso il passo del Mali Alan e le mitiche Tulove Grede: “la lunga rotta del Velebit” prosegue fin laggiù, con due giorni scarsi di impercorribile cammino, nonostante i bolli bianco rossi sbiaditi dal tempo continuino invitanti. Quelle montagne perfette, disegnate dalla mano di un bambino, quelle pietre bianchissime contro il cielo dalmata non sono più “nostre”. Le hanno ereditate le battaglie, i carri bruciati e abbandonati, e poi le mine serbe e croate: mine antiuomo probabilmente fabbricate in Italia. Ordigni in materiale plastico, che resisteranno intatte per decenni. Sulla via del ritorno, ci viene incontro con sollievo il canyon di Paklenica, con la rassicurante parete Ovest dell’Anica Kuk. Una faccia calcarea di metri straordinariamente verticale che a lungo abbiamo accarezzato, assieme a tutti i vecchi compagni di cordata. Finalmente la riva del Jadransko More, raggiunta nell’ora del tramonto e vissuta con un tuffo liberatorio nell’acqua straordinariamente tiepida, “dorata” come dice Roberto, davanti alla vecchia torre saracena che dà il nome al villaggio di Starigrad. Resta ancora il tempo per un signor dentice di oltre un chilo e mezzo gustato con un litro di malvasia e numerosi pelinkovec nella desiderata locanda “ di tutti Dinko”, refugium peccatorum gli arrampicatori di Paklenica.
Guardo, dal finestrino dell’autobus che ci riporta a Senj, tornare le nuvole sul Velebit, quelle che per tutta l’estate si vedono sedute sulle cime nei lunghi pomeriggi di afa. Quelle che rotolano giù dai ripidi pendii cariche di burrasca, spinte dalla Bora nelle notti d’inverno.

Tornate pure nella vostra casa di pietre bianche e faggi, di orsi e mine antiuomo, noi siamo già andati via.

listino prezzi

Prezzo per persona:60 EUR
Con sconto:55 EUR
Entrata:10 EUR
Pranzo:escluso
Bambini (0-6 anni):30 EUR
Bambini (6-12 anni):40 EUR